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Dimora del ballo superstite

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DIMORA DEL BALLO SUPERSTITE


Noi eravamo le unghie
tenerissime.
Bocche di passero
per chiamarti.
Indefinite salivano armonie
alle festive mani.
Al nostro trasalire
volgevi altrove
i perigliosi occhi.
Quando non ti cercammo più
attraversavi il buio
- quanti anni di buio -
per allarmarci il sonno.


Inchiodavo legni.
Lente rotazioni scandiva il tempo.
Cresceva nelle corte vesti
il magro significato di un fiore triste.
In molti rivi spandeva il suo vino
la promessa.
Procedeva sulle impaurite vie
di un mai svelato disegno.
Nella bottega allentavo morse
sui gemelli legni.
Stringevo nei pugni trucioli odorosi
chiamati ciascuno per nome.


Come se non fosse
entro una pellicola trascorso
il teatro degli anni.
Nel sangue penetrato il morire
di un ballo superstite e stanco.
Il luogo felice tradito dal tempo
noi dall’attesa.


Mi chiamò - ma bassa aveva la voce -
come dettata da un malore.
Brevi scale e avanti a me una bimba
dal corpo di cera.
La stringevo - era leggera e fredda -
Sentivo spezzarsi le ali di carta
o ghiaccio o vetro.
Come un amore postumo
e maligno vedevo cappelli
e fiori deridere il saluto.


La mia Amica funesta
mi chiamò dall’ombra.
Brune aveva le vesti
e in capo un velo.
Per non vederla
chiusi il timore dietro le ciglia.
Ma poi in mente mi tornava il canto
che ogni passo con lei segnò il cammino.
- Lasciami un poco seguitare il volo -
E mi sorrise - o parve - nell’indulgenza
simile a una madre che lascia
il figlio un po’ più tempo al gioco.


Escogita una forza che cede.
Versa nell’invisibile il suo segreto.
Così spera di crescere la diletta,
figura minuta, che ancora durante il passo
di calpestare le stelle si rifiuta.
A saltelli procede, la dolente,
sui tasti del tempo a piedi nudi.
La musica che nasce è una ferita
che l’anima nutre. E castiga.

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