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al testo di Maria benedetta cerro
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DIMORA DEL BALLO SUPERSTITE Noi eravamo le unghie tenerissime. Bocche di passero per chiamarti. Indefinite salivano armonie alle festive mani. Al nostro trasalire volgevi altrove i perigliosi occhi. Quando non ti cercammo più attraversavi il buio - quanti anni di buio - per allarmarci il sonno. Inchiodavo legni. Lente rotazioni scandiva il tempo. Cresceva nelle corte vesti il magro significato di un fiore triste. In molti rivi spandeva il suo vino la promessa. Procedeva sulle impaurite vie di un mai svelato disegno. Nella bottega allentavo morse sui gemelli legni. Stringevo nei pugni trucioli odorosi chiamati ciascuno per nome. Come se non fosse entro una pellicola trascorso il teatro degli anni. Nel sangue penetrato il morire di un ballo superstite e stanco. Il luogo felice tradito dal tempo noi dall’attesa. Mi chiamò - ma bassa aveva la voce - come dettata da un malore. Brevi scale e avanti a me una bimba dal corpo di cera. La stringevo - era leggera e fredda - Sentivo spezzarsi le ali di carta o ghiaccio o vetro. Come un amore postumo e maligno vedevo cappelli e fiori deridere il saluto. La mia Amica funesta mi chiamò dall’ombra. Brune aveva le vesti e in capo un velo. Per non vederla chiusi il timore dietro le ciglia. Ma poi in mente mi tornava il canto che ogni passo con lei segnò il cammino. - Lasciami un poco seguitare il volo - E mi sorrise - o parve - nell’indulgenza simile a una madre che lascia il figlio un po’ più tempo al gioco. Escogita una forza che cede. Versa nell’invisibile il suo segreto. Così spera di crescere la diletta, figura minuta, che ancora durante il passo di calpestare le stelle si rifiuta. A saltelli procede, la dolente, sui tasti del tempo a piedi nudi. La musica che nasce è una ferita che l’anima nutre. E castiga. |
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